NotaBene – Massimo Folador

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Un senso non proprio inafferrabile

I libri che ho scritto, l’esperienza lavorativa, in fondo la vita in tutte le sue pieghe, da sempre mi ha portato a credere che fossero “leggende metropolitane” quelle che vedevano in un uomo e in una donna persone sempre sicure di sé, capaci di “essere quello che si vuole” e, pensando al mondo dell’impresa, di lasciare problemi e dubbi fuori dall’ufficio per divenire, tra le mura di un’azienda, supereroi con pieni poteri su di sé e gli altri.

Ho sempre creduto fortemente che in ciascuno di noi, proprio in ognuno, esista un anelito all’infinito, una sorta di luogo sacro, non scalfibile da niente e da nessuno, dentro cui trovare l’essenza della nostra essenza. Come tanti testi testimoniano, ho però sempre creduto anche al fatto che siamo dei “tesori in vasi di argilla” e che la nostra forza stia proprio nel cercare questa grandezza facendo leva sulla fragilità. Questa nostra voglia di infinito, partendo dalla nostra finitezza. Qui, adesso.

Certamente non pensavo a queste cose quando ho iniziato a scrivere il mio ultimo libro, “L’inafferrabile senso della vita”, e non immaginavo neppure lontanamente che un romanzo dedicato alla storia vera di un sacerdote vissuto durante il fascismo, con la sua vita semplice ed eroica assieme, potesse parlare proprio a noi che nel lavoro spesso siamo alle prese con un mondo che sembra bisognoso di persone superdotate, competenti, sempre all’altezza delle situazioni e motivate. Proprio lui, don Erasmo, impegnato a cimentarsi con mille vicissitudini, scelte che non quadrano, tra mille contraddizioni, relazioni a metà e incomprensioni.

Ed invece, come sempre, la vita di ogni giorno mi ha sorpreso attraverso la richiesta di alcuni lettori, di professione imprenditori, affascinati dalla figura di questo prete di provincia e certi che quel suo modo umile ma deciso, discreto ma coraggioso, potesse lanciare qualche messaggio importante anche a noi, alle prese come siamo con un lavoro che cambia, con un modo di fare impresa che cambia, con persone che cambiano.

La prima presentazione fatta in azienda è stata del tutto inaspettata. Certo, conoscendo chi la dirige e tanti collaboratori, sapevo che sarebbe stato un momento piacevole ma tutto mi attendevo, dopo la lettura di alcuni brandi del libro, fuorché delle domande mirate, piene di curiosità e della voglia di indagare una storia così apparentemente distante dal mondo del lavoro. Domande delicate e assieme decise che hanno messo in difficoltà persino me, l’autore del libro, uno che da tanti anni bazzica le aziende come manager, consulente e formatore, piccolo imprenditore. E mi ha sorpreso dare delle risposte che non pensavo potessero scaturire da una storia così diversa e distante, da un uomo mite, umile ma, al contempo, pieno di forza e di coraggio. E mentre tentavo di lavorare su questo possibile parallelismo tornavo a dirmi e a capire che in fondo la vita è sempre e solo una, anche nel lavoro, perché una persona è alla fine l’attore che prova a guidarla e perché le domande di fondo, quelle che contano, sono sempre una manciata.

Una in particolare: “Che senso possiamo dare al nostro tempo? A quello che trascorriamo al lavoro piuttosto che tra le mura di casa? Che senso possiamo dare alle relazioni con le persone care della nostra vita ma anche con quelle con cui, magari per anni, lavoriamo fianco a fianco?” Allora la figura di questo sacerdote di provincia può cominciare a parlarmi, anche se apparentemente appare distante dalla figura di un manager, di un imprenditore o di chiunque, nel lavoro, sembra sempre alle prese con altre domande. Mi parla, mi interpella perché il suo è un cammino ininterrotto per cercare di capire cosa è bene ed è giusto fare davanti ai bivi della vita, alle decisioni più delicate e alle mille questioni che spesso portano in dono le relazioni. In un brano del libro è proprio lui che si domanda se le relazioni costruite nel nuovo paese hanno prodotto ferite o feritoie, ben sapendo che le prime restano aperte e spesso fanno male, mentre le seconde permettono a chiunque di trovare un riparo e di guardare oltre.

E di fronte a questi bivi e a queste domande la sua posizione è sempre la stessa, sia quando decide di rimanere in silenzio davanti ad un sopruso, sia quando prende posizione in modo forte e deciso: quella di chi prova sempre ad ascoltare sé stesso, la propria coscienza, i propri valori, per capire quale voce arriva dall’interiorità, quale comando. Ma è anche la posizione di chi non si accontenta di questo ascolto e prova a confrontarsi con gli altri, con le loro richieste, a volte assurde, a volte lecite. I loro consigli, i loro silenzi. La posizione di chi non si ferma neppure davanti a questa seconda opportunità e prova ad accedere ad una terza, forse più “alta e più altra”.

Nella lingua ebraica la parola “ruah” significa respiro, soffio di vita. Lo stesso nome della collana di cui il libro fa parte. Una coincidenza che mi fa pensare a come riusciremo a parlare di spiritualità in azienda. Spiritualità intesa proprio come quel “soffio di vita”, quella forza aggiuntiva che, per chi crede ma non solo, può arrivare da ciò che ci trascende. Viktor Frankl, psichiatra famosissimo, noto anche per aver raccontato la sua esperienza nei campi di concentramento in un libro indimenticabile, afferma che solo questa forza spirituale aveva permesso a persone apparentemente fragili di sopravvivere a tanta violenza e fatica.

È strano ma non avevo capito queste cose fino in fondo mentre scrivevo questa storia e questo libro e mi è servito attraversare, a mo’ di cammino, una vicenda così diversa dalle nostre per capire come in fondo la vita sia veramente “inafferrabile”, persino quella lavorativa, ma che esiste sempre un senso da ricercare e da percorrere.  Forse l’unico modo per dare vita ad un tempo capace di produrre valore, accanto a relazioni di valore, per sentirsi persone di valore. In azienda, nella vita di ogni giorno. Sempre.