Responsabilità sociale d’impresa e comunicazione: facciamo chiarezza

4. foto RSI

 

Abbiamo aspettato alcune settimane per scrivere il nostro punto di vista su una questione balzata alla ribalta della discussione pubblica, ma delicata e più importante di quel che si pensi: il rapporto tra le imprese, pubbliche e private, e le loro attività di responsabilità sociale.

Il tema è diventato di grande attualità dopo le polemiche che hanno coinvolto l’influencer Chiara Ferragni e alcuni marchi (da Balocco a Oreo) per azioni di marketing destinate a raccogliere fondi per beneficenza. Ma, anche per rispetto nei confronti dei soggetti coinvolti nelle polemiche, nelle multe e nelle indagini giudiziarie, ci preme invece spostare la discussione sul perimetro e sui limiti connessi alla sostenibilità sociale di cui si fanno carico le aziende.

La prima osservazione da fare è che la responsabilità sociale attrae e convince sempre maggiori fette di consumatori. La causa sociale diventa quindi un fattore di marketing potente ed evoluto, cui le imprese si affidano con maggiore confidenza, sviluppando azioni che coinvolgono giocoforza anche influencer, quindi intermediari capaci di costruire una relazione quotidiana (vera o fittizia) con il cliente finale.

Secondo il recente Report Higher Impact di Amazon Ads, la Generazione Z (la generazione dei giovanissimi, nativi digitali) è molto sensibile alla capacità dei marchi di impegnarsi in azioni concrete e attenta a valutare la coerenza dei valori che trasmettono. Le scelte d’acquisto sono così legate a temi come l’ambiente, la salute, la diversità e l’inclusione.

In linea generale, afferma il Report, quasi otto consumatori su dieci nel mondo (78%) non sopportano i brand che si comportano come se fossero esenti da ogni responsabilità verso l’ambiente, ma solo poco più della metà degli intervistati (58%) ritiene credibili i messaggi delle aziende relativi a sostenibilità e DEI (acronimo per Diversità, equità e inclusione).

In Italia, ben l’84% dei consumatori considera importante che le imprese si impegnino attivamente nella promozione dei valori DEI. E, viene ribadito specificamente nel report, “i brand devono pensare a entrambi i tipi di opportunità attuabili (azioni interne a livello aziendale e azioni esterne a livello di comunità) per impegnarsi in maniera autentica verso la DEI”, a iniziare dalla parità di genere.

Oggi, tra l’altro, è intervenuto in materia anche il Governo italiano, con un disegno di legge che prevede, in caso di violazione, multe e pubblicazione dei provvedimenti sanzionatori sui siti web di aziende e professionisti implicati.

Il ddl prevede che i produttori o i professionisti riportino sulle confezioni dei prodotti il destinatario dei proventi della beneficenza, le finalità a cui sono destinati i proventi e l’importo complessivo destinato alla causa. Queste informazioni devono essere comunicate all’Autorità garante della concorrenza e del mercato insieme al termine entro cui verrà versata la somma elargita.

È opportuno quindi che le organizzazioni si facciano un quadro chiaro e completo dell’evoluzione delle esigenze del mercato, tenendo ben presente alcuni aspetti fondamentali.

Prima di tutto, occorre la consapevolezza che la responsabilità sociale è parte di un progetto d’impresa, che ha l’obiettivo di generare valore nel medio termine per l’impresa stessa e la comunità con la quale costruisce delle relazioni. La responsabilità sociale non è un’attività di marketing, è frutto di un’identità aziendale e di una strategia complessiva.

Il prodotto deve essere un bene che vale, non uno strumento per risanare i bilanci con azioni di beneficenza. Se si riconduce il marketing nell’alveo della strategia, allora diventa un mezzo per conoscere e parlare al mercato e non un sistema per eluderlo.

In secondo luogo, l’etica d’impresa è diventato un driver fondamentale delle scelte aziendali. Certamente anche la business ethics è una scelta che deve essere meditata e concreta. Deve tradursi in codici di condotta, in processi, in prospettive future. Ma oggi il rischio di non occuparsene o occuparsene male, è troppo alto. Chi non applica l’etica aziendale, non sa farlo o trascura il valore del capitale fiduciario, si pone in una situazione delicata e potenzialmente pericolosa.

Per questo, è bene costruire il capitale fiduciario attraverso una relazione senza fraintendimenti e scevra di dubbi. La comunicazione dell’impresa deve essere attenta, corretta, chiara, conseguente ai valori strategici.

Le parole sono pietre, ci insegna Carlo Levi.


Matteo Reale

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