Intervista a Federico Visconti

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Rettore della LIUC Università Cattaneo. Vice Presidente di Fideuram Intesa San Paolo Private Banking e membro del Consiglio dell’Istat.  

Rettore, a suo parere il forte sviluppo degli ultimi anni dei temi relativi ai valori d’impresa e alla responsabilità sociale è un fenomeno nuovo o è la ripresa di una visione aziendale già presente nella società?

L’attenzione ad alcuni valori di statura istituzionale c’è sempre stata. Valori che emergevano, in modo diverso, nella dottrina aziendalistica e nel linguaggio delle imprese e il cui peso negli ultimi anni indubbiamente si è accentuato. Nei libri di uno studioso come Carlo Masini, per esempio Lavoro e risparmio, erano già presenti, sul finire degli anni Settanta, richiami al bene comune, all’attenzione agli stakeholders, alla pluralità degli obiettivi aziendali. Così come negli scritti di Vittorio Coda, negli anni ‘80. Oggi si è arrivati a una formalizzazione di questo modo di fare impresa, in un momento storico nel quale si avvertono una maggiore esigenza ed urgenza (pensiamo al lavoro dei giovani, all’ambiente). Un altro tratto distintivo di oggi è la comunicazione: il livello di conversazione su questi temi è molto ampio e diffuso e ogni errore che compie un’azienda è di conseguenza amplificato.

In un momento caratterizzato da innovazioni tecnologiche e trasformazioni molto rapide, i valori d’impresa sono una spinta alla crescita delle imprese?

Credo che il fatto di esprimere dei valori sia connaturato all’istituto impresa (persone che si mettono insieme per un obiettivo, in vista di un progetto). Occorre però discriminare tra i valori funzionali allo sviluppo dell’impresa e quelli non funzionali. Tra i primi c’è la tensione sana ad essere competitivi, a coinvolgere i collaboratori, a comunicare in modo trasparente, ad aprirsi all’innovazione (anche attraverso le relazioni con i portatori d’interesse, non ultimi i concorrenti). Ritengo che non si possa concepire l’impresa, il fare-impresa senza questi valori. Aggiungo che la riflessione sugli aspetti fisiologici o patologici del profitto è in atto da tempo. Quando il profitto è una delle dimensioni costitutive del finalismo d’impresa, insieme agli obiettivi di competitività e di socialità, si è sulla strada giusta. Quando è prioritario, quando è in cima alla piramide, i valori non sono sani.  Non va peraltro dimenticato che una malintesa socialità fa male anche all’impresa.

Possiamo parlare di un modello d’impresa anglosassone e uno europeo, che si distinguono anche per l’attenzione verso la responsabilità sociale?

La tradizione anglosassone è molto orientata al mercato e al valore per l’azionista: questo spiega anche una serie di limiti del capitalismo (la shareholder value) di cui oggi si parla poco, certamente meno che in passato. Ma ci sono pro e contro in tutti gli approcci. Quello americano, per esempio, è un modello in cui il fallimento non è demonizzato e il rischio d’impresa è contemplato come componente essenziale dell’intrapresa.

In Europa abbiamo un modello abbastanza diverso da Paese e Paese (in Italia è basato sulla piccola e media impresa familiare, in Germania le imprese sono più grandi e hanno meccanismi di governance più strutturati e meglio funzionanti e così via). Il nostro modello ha degli aspetti positivi, a cominciare dall’attaccamento dell’imprenditore all’azienda. Ma ha anche dei limiti: una certa resistenza agli strumenti di management, una scarsa rotazione nei ruoli organizzativi, una limitata propensione alla crescita e all’apertura del capitale.  

Bisogna tenere presente che la globalizzazione dell’economia, la contaminazione degli assetti proprietari delle imprese, i flussi internazionali di capitali hanno ibridato quelle che potevano essere le specificità dei sistemi Paese. In poche parole: una lettura per blocchi geografici funziona meno che in passato.

Possiamo dire che la via dell’impresa familiare italiana riacquista un ruolo, se vista all’interno di un percorso verso la sostenibilità sociale e ambientale?

Nel 2011 ho scritto con il collega della Bocconi Guido Corbetta, Gli imprenditori. Il valore dei fatti. Vi sostenevamo che è difficile identificare in Italia un modello alternativo a quello del capitalismo familiare: grandi aziende industriali ne abbiamo poche, i distretti non ci sono più, almeno nella forma di prima (ma le specializzazioni produttive resistono), fonti di energia non ne abbiamo, lo sviluppo dei servizi tendenzialmente non è nelle nostre mani. Scriverei oggi lo stesso: l’economia italiana ha una spina dorsale che continua a ruotare attorno alle PMI, in particolare nei settori che alimentano il bello e ben fatto, come suggerisce Confindustria. La struttura di fondo del modello economico non è cambiata radicalmente. Ci sono stati dei processi di concentrazione, il numero delle imprese è diminuito ma tante imprese familiari si sono irrobustite, in silenzio, senza finire agli onori della cronaca. Questo anche grazie a un fenomeno che abbiamo messo sotto osservazione in LIUC, attraverso una robusta attività di ricerca. Si tratta del contributo costruttivo dei giovani imprenditori di valore, tra i 30 e i 40 anni. Si tratta, in generale, di giovani che hanno studiato, che hanno fatto esperienze professionali fuori dall’azienda di famiglia (anche all’estero), che sono aperti all’innovazione, che sanno stringere relazioni. Il tema però non è solo fare evolvere il modello familiare su nuove basi, ma far crescere l’intero sistema imprenditoriale italiano. L’Italia è un Paese che fatica ad avere scatti selettivi, salti di modello. Per queste ragioni, progetti di cambiamento culturale, fenomeni imprenditorialmente effervescenti, come le Società Benefit, assumono un grande valore simbolico e sono di grande utilità sociale.

A suo parere cosa manca al mondo imprenditoriale italiano per dare maggiore impulso all’area vasta del beneficio comune e della responsabilità d’impresa? Formazione? Preparazione culturale? Strumenti?

Al sistema italiano serve maggiore coraggio nelle decisioni selettive e maggior senso delle istituzioni, a cominciare dallo Stato. Ci manca una vera cultura del mercato e della concorrenza. Siamo storicamente resistenti al cambiamento. E serve un orientamento deciso verso i giovani, anche se la constituency elettorale è determinata dagli anziani. Per questo dovremmo recuperare il significato profondo della parola “investimento”, in particolare nella ricerca, nell’innovazione, nel patrimonio intangibile. Se in giro per il mondo sono stati assunti 100 mila laureati italiani, vuol dire che il nostro sistema formativo funziona e le capacità ci sono. Dobbiamo continuare  a investire e dobbiamo fare in modo che non scappino all’estero.