NotaBene – Massimo Folador

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Beneficenza e bene comune, uguali o diversi?


In queste ultime settimane, dopo il “caso Ferragni”, alcuni temi sono tornati ad essere scottanti. Tanto più per quelle imprese che provano seriamente ad operare sul “bene comune” e a far sì che l’etica e la sostenibilità diventino veramente dei driver fondamentali per lo sviluppo di un’organizzazione.

Abbiamo a lungo creduto che l’ambito della beneficenza, per come l’abbiamo tutti generalmente intesa, racchiudesse il “massimo” del bene sociale realizzabile da un’azienda ma ultimamente le cose e la percezione stanno rapidamente cambiando. Da una parte, tanto più dopo la possibilità di inserire nello Statuto le finalità di Beneficio Comune, la consapevolezza che tante realtà possono generare valore sociale anche attraverso delle iniziative dirette, come le collaborazioni con le scuole, progetti comuni con gli enti del terzo settore, il welfare aziendale ecc. Nel contempo, ciò che abbiamo letto sui giornali rispetto ai vari casi di “finta beneficenza”, ci ha fatto capire che non sempre certe iniziative sono destinate a creare valore, quando vengono gestite in tutt’altra ottica e senza il supporto di chi opera con grande serietà in questo campo.

Credo serva allora tornare a riflettere sulle due parole, “bene” e “comune”, che compongono il significato di questa sfida etica che abbiamo di fronte nella complessità della situazione attuale. Partiamo allora dal concetto di “bene” e proviamo ad usare la parola nella sua interezza e profondità. È facile fare riferimento ai “beni”, ovvero a quella serie di elementi che ci fanno stare realmente bene: alcuni beni materiali, monetari ma anche i cosiddetti beni “relazionali”. Si tratta di cose, persone, situazioni grazie alle quali “io sto bene” e questa percezione è reale, concreta e dura nel tempo. Ci rendiamo conto con facilità che quando parliamo di un bene vero, quando diciamo autenticamente “ti voglio bene”, stiamo facendo riferimento a qualcuno di importante, al quale teniamo in modo particolare. Una persona che concorre in modo significativo alla bontà della nostra vita e alla nostra felicità.

In azienda questa stessa riflessione può stravolgere anche la lettura di un bilancio di esercizio e aiutarci a verificare quali siano i veri beni che supportano e danno valore all’impresa. Quali le risorse, materiali e immateriali che ci permetteranno di “stare bene” nel tempo, quali le leve reali su cui puntare e investire. Così come, al contrario, verificare quali siano gli asset di breve periodo e poco strategici nello sviluppo di un’organizzazione.

È facile, tornando ai vari scandali e volendo analizzare il risultato di quei finti, o parzialissimi, beni, renderci conto che queste beneficenze imbellettate tutto sono fuorché la realizzazione di quel “bene comune” che è il vero bene a cui puntano e che realizzano tante realtà del terzo settore nella loro attività di supporto alle fragilità delle persone e della società nel suo insieme. E i cattivi effetti generati e sotto gli occhi di tutti non hanno prodotto valore per nessuno: per i vari protagonisti, che non hanno creato bene per gli utenti, defraudati e ingannati (e oggi giustamente arrabbiati); per le aziende produttrici, oggi finite nel tritacarne dell’opinione pubblica; per le realtà oggetto della beneficenza, che si sono viste recapitare pochi euro e stanno subendo il riverbero dell’eco negativa che si è propagato.

Qui entra in gioco la seconda parola, “comune”, che in realtà è quella che fornisce il vero significato della prima. Non esiste un bene “autentico” che non sia comune, ovvero frutto di un processo/percorso partecipato e che si tramuti in un valore condiviso. Sia questo un bene monetario o qualunque altro di natura intangibile come la reputazione e la fiducia.

L’etimologia di “comune” si rifà ad un significato latino che abbiamo dimenticato e dal quale derivano le parole comunità, comunicazione etc.: cum – munus, ovvero una relazione, un’attività “comune” per l’appunto, dove più persone si ritrovano per realizzare un munus, un fatto, un progetto. E fin qui nulla di difficile. Ma nella parola antica munus risiede anche l’idea di “munifico”, di qualcosa che nasce grazie alla generosità. Una comunicazione autentica, una comunità vera nascono e si sviluppano nel tempo soltanto grazie a dei comportamenti generosi e tesi, per l’appunto, a un bene comune. Quando così non è, i nodi sono destinati a comparire. È sempre e solo una questione di tempo. I nodi di una beneficenza travestita, i nodi di una relazione con i clienti e i fornitori che non punta realmente ad una soluzione win – win, i nodi dell’impatto ambientale. E via via ovunque ci sia una relazione e, di conseguenza, una comunicazione che non vuole creare un autentico bene condiviso.

Quali valori servono allora davanti a questa sfida per evitare che gli eccessi si trasformino ancora di più in quel “male comune” che spesso oggi ci soffoca? Quanta coerenza e forza serve esercitare per arrivare a quei risultati che, in una relazione professionale, sono dati dalla fiducia e dalla reputazione? Credo ci sia molto su cui riflettere e chiunque lo voglia fare con noi molto volentieri, è la sfida più grande, non l’unica ma probabilmente la più grande.